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Quando si ballava per s’alza

I racconti di chi conobbe questo rito antichissimo

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C’è stato un tempo in cui in Sardegna esisteva una società legata ai cicli produttivi delle stagioni, alle transumanze delle greggi e soprattutto dipendente dalle vicende atmosferiche. Una società, quella agro-pastorale in cui erano anche diffusi riti agresti a carattere magico, come il culto delle acque, e pratiche legate alla medicina popolare, diffuse in tutta l’isola e tramandatesi oralmente fino alle generazioni dei nostri nonni. Una di queste pratiche era su ballu ‘e s’alza.

S’alza è un temutissimo ragno conosciuto in italiana come malmignatta o vedova nera del mediterraneo; cugina di quella vedova nera, pericolosa ma non letale come quest’ultima. In Sardegna a seconda delle località è chiamata alza, arza, argia e aglia; si è estinta quasi completamente intorno alla fine degli anni Cinquanta in seguito alle bonifiche effettuate nell’isola per debellare la malaria, e per effetto dell’utilizzo di diserbanti nell’agricoltura. Con il suo morso, s’alza, iniettava un veleno che intossicava l’organismo, provocando febbre molto alta, dolori strazianti, nausea, vomiti, perdita di coscienza e in casi rari anche la morte, probabilmente derivata da altre complicazioni.

Secondo la medicina popolare il rimedio conosciuto per guarire da sa punta ‘e s’alza era effettuare un ballo, un rito di rigenerazione che seguendo determinati schemi aiutava il malcapitato a trovare un iniziale sollievo ed infine il risanamento definitivo. Sin dai tempi antichissimi si conoscevano le proprietà terapeutiche del canto e della musica in generale, e probabilmente si faceva affidamento proprio su queste doti quando si metteva in pratica il ballo de s’alza.

A seconda delle località si eseguivano differenti rituali. Lo scopo era comunque lo stesso. Quello più conosciuto prevedeva la disposizione del malato dentro una fossa appositamente scavata, riempita di letame fino al collo della persona. Venivano chiamate a partecipare al rito sette donne bajanas (nubili), sette donne cojuadas (sposate) e sette donne fiudas (vedove), le quali danzavano e cantavano attorno all’infermo a gruppi di sette alla volta, pronunciando battute spiritose spesso sconce con lo scopo di risollevare almeno il morale del paziente. Il malato riconosceva nella danza di uno dei tre gruppi quella che gli dava più sollievo, e continuava il rito solo il gruppo prescelto impostando il ballo in un determinato modo; ciò era molto importante perché in tale maniera si identificava la tipologia di ragno, ovvero se era vedova, nubile o sposata. Se il giovane trovava sollievo dal rito delle donne sposate, secondo gli antichi significava che s’alza era sposata. Il rito poteva durare anche tre giorni, l’efficacia della terapia non era certo messa in discussione.

In un altro rito erano chiamate a partecipare tre donne sempre di stato civile diverso, ma dovevano chiamarsi Maria.
 
Un terzo rito prevedeva invece che le donne ballassero in silenzio portando al collo dei campanacci, il cui suono si credeva allontanasse gli spiriti maligni. Iin un altro rito lo sventurato veniva riposto dentro un forno per almeno dieci minuti precedentemente riscaldato e una volta estratto veniva avvolto nelle coperte e aspettava la guarigione.

Come si è detto era un rito conosciuto e diffuso in tutta la Sardegna e il Meilogu non era escluso; sono state raccolte delle testimonianze di alcune persone che intorno agli anni Cinquanta parteciparono al rito de s’alza nel comune di Thiesi e di Bonorva. Ognuna delle pratiche raccontate presentano alcuni tratti caratteristici dei diversi riti elencati sopra, altre caratteristiche invece si sono perse probabilmente anche a causa dell’abbandono progressivo di certe pratiche legate alla medicina popolare. Così ci racconta un testimone di Thiesi che agli inizi degli anni Cinquanta venne morso dal ragno veleno e fu sottoposto per diversi giorni al rito.

«Era una mattinata di luglio, l’anno esatto non l’ho ricordo, forse era il 1950 perché nel 1951 sono partito per fare il servizio militare. Ero con mio fratello in campagna in località Giavattari vicino al bacino del Bidighunzu, ma all’epoca non esisteva ancora; stavamo raccogliendo su mudeju [fascina di legna, usata per accendere il forno], mentre stavo legando il fascio ho sentito un pizzico alla caviglia destra, mi tolsi la scarpa e vidi un ragno nero. Il morso non era stato doloroso, infatti inizialmente non sentivo nessun disturbo. Arrivò il momento del pranzo e con gli altri lavoratori avevamo l’abitudine di riunirci in una casa per mangiare tutti insieme, qui iniziai a non stare bene, sentivo tremarella e non avevo voglia di mangiare. Ne parlai con un signore che conoscevo, il quale mi disse: 

"Cussa est alza! Baediche a domo subitu!"

Feci un bel tratto di strada a piedi per raggiungere il cavallo poiché distante da dove mi trovavo, e una volta giunto dall’animale mi incamminai verso il paese. Ricordo che quando il cavallo andava a passo svelto riuscivo a stare dritto e reggermi sulla sella, ma quando si fermava cadevo in avanti sulla testa dell’animale, iniziavano a mancarmi le forze. Nella strada di ritorno incontrai mio padre, il quale mi chiese perché rientravo a casa a quell’ora, spiegai l’accaduto e allarmato tornò in paese con me. La casa dei miei genitori si trovava vicina all’ospedale, così fu chiamato il medico. Appena mi vide, disse:

“Sezis arrivados tropu tardu. Deo li fato sa puntura, però bois giamade sos chiterristas, zente chi sonada sa fisarmonica, chi cantada e ballada, cussu chi piaghede a fizu bostru, e aisetade!”

Così iniziò su ballu ‘e s’alza. Il rito durò quasi dieci giorni senza interruzioni, nemmeno la notte. Sin da subito arrivarono tantissime persone; in tutto quel tempo io stavo sempre a letto e soffrivo tantissimo, avevo dei dolori molto forti e il mio corpo si era anche un po’ gonfiato. Essendo la stanza piccola non potevo ospitare tutte le persone, per ciò i suonatori e i cantanti, bravissimi improvvisatori di allora, stavano con me nella camera da letto mentre, chi ballava lo faceva davanti alla mia finestra che lasciavamo spalancata. Il canto e la musica dovevano servire per alleviare le mie sofferenze e tirarmi su di morale, se questo non accadeva li facevo allontanare. Infatti ricordo che vennero a cantare alcuni amici, ma non sopportavo la loro melodia e li feci zittire, mentre c’era una signorina di Gallura, una bella ragazza, che cantava anche molto bene e di conseguenza mi dava sollievo. Gli improvvisatori cercavano di coinvolgermi nel canto, mi ritornano in mente alcune strofe che cantavano:

“Si ti da tantu dolore de un'alza sa puntura”;
“Ti siat antifigura sa puntura de s'amore”, rispondevo io.

Fu certamente l’unica volta che vidi così tanta gente in casa mia e nel vicinato. Malgrado le mie sofferenze per molti il rito era diventato quasi un divertimento, venivano per cantare e ballare. Alla fine dei dieci giorni iniziai a stare meglio, ma la convalescenza durò altri due mesi. Alcuni sintomi del morso velenoso durarono per diverso tempo, continuai ad avere la tremarella; solo quando partì per il servizio militare potei guarire completamente, grazie ad un vaccino che veniva fatto a tutti i giovani che iniziavano il servizio di leva».   

Tra le tante persone che parteciparono al rito appena raccontato vi era anche una ragazza, la quale oggi ricorda che: «fui chiamata da un’amica e mi disse che un giovane era stato morso da s’alza e quindi dovevamo danzare e cantare per alleviare le sue sofferenze; ci rimasi una sera intera. Non dovevamo mai fermarci, questa era la raccomandazione, altrimenti ‘torraida a tichirriare’. Io non ci credevo a queste cose, però mi piaceva molto ballare, e andavo per quello».

Secondo un'altra testimonianza nel 1912 a Thiesi un giovane di quarant’anni morì dopo essere stato punto dal ragno velenoso. All’epoca questo fatto colpì molto la popolazione, perché si sosteneva che la famiglia del giovane non avesse permesso di eseguire il ballo, poiché portava il lutto per la morte di un altro figlio qualche tempo prima. In realtà la famiglia durante la notte chiamò le vedove per eseguire il rito per il giovane, che comunque morì a causa di altre gravi complicanze.

Un testimone di Bonorva ci racconta anch’egli di aver preso parte ad un rito che si svolse all’aperto, esattamente nell’orto del malato, poiché questi era disposto dentro un fosso coperto di terra. Si ballava attorno al paziente e, secondo il testimone, essenziale fu la presenza del fisarmonicista. Anche in questo caso era necessario non fermare la musica e i canti, pena un aggravamento della salute dello sfortunato. 

Oggi potrebbero sembrarci delle usanze quantomeno bizzarre, frutto della superstizione o addirittura dell’inconsapevolezza delle persone, le quali molto spesso non sapevano cosa stessero facendo. Potrebbero invece trattarsi di consuetudini “figli del loro tempo”, retaggi di una società che per secoli si è basata su determinati codici e leggi rimasti immutati fino a quando la tecnologia o la medicina moderna si è sostituita a quella popolare. 

Segnaliamo il film “Su ballu ‘e s’arza”, realizzato dall’Associazione Gruppo Folk Tradizioni popolari e dall’Associazione Culturale Coro Melchiorre Murenu di Macomer, regia di Serafino Deriu. Tratto dal racconto omonimo di Giovanni Firinu.

 

Per le testimonianze si ringraziano i Signori e le Signore del paese e gli ospiti della Casa Peppina Clivio-Comunità Alloggio.

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