Parole affidate al vento. L’eredità poetica di Tiu Gavinu Contene.

Il ricordo di un grande improvvisatore

Francesca Arru
14/06/2013
Personaggi
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«S'omine cantadore 'e mestieri,
-narat su diciu- morit pedidore,
ma eo lu fatto pro solu capricciu,
pruite dae me matessi lu so idende»

«Chi fa il poeta per mestiere -come dice il proverbio- muore mendicante; ma io lo faccio solo per capriccio, perché lo sto vedendo da me stesso»

Il suo nome di battesimo completo era Gavino Luciano Contini, ma tutti lo chiamavano benevolmente Tiu Gavinu Contene, senza sapere ancora che sarebbe diventato uno fra i più amati e conosciuti poeti improvvisatori dell’Isola.

Nato a Siligo nel 1855, Gavino visse un’infanzia simile a quella di tanti suoi coetanei, aiutando il padre Antonio nei campi e frequentando la scuola fino alla terza elementare. La sua viva intelligenza e lo spirito arguto e vivace non lo abbandonarono quando, dovendo lasciare gli studi, si dedicò all’allora diffusa occupazione di “servo-pastore”, lavorando prima nella vicina Ploaghe e, successivamente, presso ricchi allevatori di Siligo. Il piccolo Gavino coltivò sempre la passione per la lettura, e nel tempo libero amava rifugiarsi fra le pagine di opere poetiche, trattati storici, divorando tutto il materiale letterario che riusciva a procurarsi.

Nel 1875, ormai ventenne, decise di arruolarsi nel Corpo delle Guardie Regie, con l’intento di migliorare le prospettive di vita sue e dei familiari. L’innato talento gli consentì di distinguersi anche presso i Reali quando, in occasione del genetliaco di Vittorio Emanuele II, fu ammesso a Corte per una gara poetica, nella quale un suo brillante “brindisi augurale in lingua sarda” gli diede diritto ad una pensione vitalizia.

Le precarie condizioni di salute, peggiorate mentre prestava servizio come Guardia presso il carcere di Castiadas, lo costrinsero a rientrare nella sua Siligo, dalle sorelle Raimonda e Anatolia. Da lì in poi, Tiu Gavinu si dedicherà esclusivamente all’amata poesia, acquistando in brevissimo tempo fama e prestigio oltre i confini del paese. Ai tempi di Gavino, infatti, l’arte poetica estemporanea in Sardegna - tradizione atavica radicata soprattutto nel Logudoro – era all’apice della sua diffusione, e trascinava una fitta schiera di spettatori ad ogni gara (le mitiche “disputas”).

Per oltre vent’anni la stella di Gavino Contini ha brillato sui palchi di tutta l’Isola, dai quali ha ingaggiato storici “duelli” a colpi di “parole in rima” con gli altri storici “poetas”, che agguerritamente gli tenevano testa: Cubeddu e Pirastru di Ozieri, Testoni di Bonorva, Moretti di Tresnuraghes, Farina di Osilo, e così via. Rivali nell’arte della poesia, ma estremamente rispettosi nei confonti di Tiu Gavinu e della sua vivace intelligenza: lo definirono, ad esempio, altu monte, su zigante e de sos poetas su mastru.

Ma chi era, in fondo, Zio Gavino? Un uomo semplice e di spirito, dal portamento distinto, che amava girare con il suo inseparabile cappello in testa e, a detta dei compaesani del tempo, con un ramoscello di assenzio nel taschino della giacca. Grande conversatore, ma anche accanito bevitore.

Continuò a improvvisare e ricamare versi fino alla morte, avvenuta nel 1915. Poco prima di andarsene, aveva scritto una breve composizione – lui che i suoi versi amava lanciarli per aria e affidarli semplicemente al vento – intitolata Discursu de Gavinu Contini a sa morte chi benit a l'avvisare essende arrivada s'ora sua, in cui il poeta immagina di parlare con la Morte e con Dio.

In quest’opera, Tiu Gavinu saluta il suo paese natale ed auspica che, con l'aiuto dei santi e della Madonna, riesca a salvare la sua anima, bonaria e “peccatrice” fino all’ultimo ma senza troppi rimpianti. La maggior parte della sua poetica, trattandosi di un Improvvisatore, è stata tramandata oralmente; tuttavia sono state pubblicate due raccolte a lui dedicate: una, risalente agli anni '60, curata da Antonio Carta ed una del 1983 da Don Giommaria Dettori.

Ricordare Gavino Contini significa anche conoscerlo attraverso le sue rime spiritose e auto-ironiche, che gli fecero dire di se stesso:

A una limba mala ruza e rude
li rispondo cun tonu mansuetu:
Ognunu a sos errores est suggettu
tantu in bezzesa che in gioventude
ca ue fiorit bella una virtude
bi naschet pro natura unu difettu
Non pianghedas nerzende ite dolu
Ca si deo so goi non so solu.

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