Questâanno, in occasione de âMesâ Austu in Giaveâ 2016, lâ Associazione Culturale âAntonino Urasâ Arte- Cultura- Tradizioni popolari ha deciso di proseguire con lâorganizzazione dellâesclusiva giornata di Ferragosto: tale decisione
devâessere vista come un gesto simbolico e di rispetto verso i tempi di crisi che purtroppo la nostra società sta affrontando. Per contro si è deciso di focalizzare le energie su un tema semplice che una volta costituiva il âveroâ sostentamento di tutti noi : il pane. In passato si arrivava a questo prezioso bene grazie alla mietitura che si svolgeva con le caratteristiche di una vera festa paesana: significava infatti che la comunità tutta reperiva i propri viveri lavorando duro.
Il grano veniva trasformato nei mulini esistenti nel paese perciò questâ attività creava non solo occupazione ma anche aggregazione sociale in quanto quello era motivo di incontro fra le persone che avevano poche occasioni per conoscersi. Si viveva in un clima di estrema semplicità e ci si accontentava di poco mentre col consumismo siamo arrivati a non assaporare più nulla tralasciando anche aspetti essenziali della vita quotidiana.
Nel 2016, con questo progetto, lâAssociazione culturale âAntonino Urasâ vuole perciò dare un segno tangibile di ritorno alla semplicità , donando così a tutti i presenti un sacchettino contenente un pane ricamato con una spiga di grano coltivato dai Soci in agro di Giave e una poesia dedicata al Sacerdote Don Giovanni Maria Campus dal poeta Antonino Uras nellâanno 1980..insomma lâAssociazione vuole portare chi presenzierà , al vivere la giornata di Ferragosto dedicata interamente alla Madonna ,andando in chiesa a pregare e gioire insieme alla collettività e realtà che ci circonda, sotto le note delle antiche âpregadorias in limba sardaâ cantate dal bravissimo cantautore Battista Morittu di Bonorva nella Santa Messa celebrata da Don Gabriel Mpolo in Parrocchia alle ore 11 e gustando subito dopo la Messa âsos biscottos asseddados, sos rosolios fattos in domo, su muscadellu onu e unu ticcu âe gaffè.. tottu preparadu dae sos sotziosâ ..insomma tornare a vivere il giorno Santo di Ferragosto ..
...Tottâ umpare cun pagu!!
TRIGU, LAORE E POESIA
Sa parà ula trigu protzedit dae su latinu tridicum, in tzertos giassos de sa Sardigna li naran finas laore ebbia, mancari laore siat su nòmene culletivu e genèricu impitadu cando non si dat notìtzia de cale laore semus faeddende: orzu, avena, trigu⦠e gai sighende. Custu cheret nà rrere chi su trigu at, o aiat, unu logu de rispetu comente châesserat su Re de sos laores. Logu e valore chi su Sòtziu âAntoninu Uras Giave cun custa faina châant postu in andare sunt chirchende de li torrare. Comente narat bene meda Maria Antonietta Uras su chèrrere torrare a sa terra, a su trigu, a su pane e asos mulinos e fainas de onzi die est una manera pro nos frimmare e pro nos dimandare a ue semus currende senza assaborare su pagu chi si hada.
Trabagliare sa terra, semenare e contivizare su trigu, messarendelu, fà ghere sa farina e a poi su pane sunt totu trabà glios isfadosos: bi cheret bona volontade, impignu, prà tiga e connoschèntzia. Sas matessi connoschèntzias chi su Sòtziu est chirchende de torrare a pònnere in campu e chi su agiuat a dare a connòschere.
Inoghe fatu podimus lègere unâotava bella e famada meda.
Poetas e apassionados de poesia la connoschen a mente ca est unâotava bene fata e de giudu. Sos primos versos sâabberin cun una invocatzione a Nostra Segnora pro chi beneigat sos trabà glios e sas fadigas de sos bonos cristianos. In sos à teros versos est invocada unâabbundà ntzia fora de mesura, difatis su poeta si pregat chi ogni ranu betadu produat chentu ispigas, d-ogni ispiga giutat chentu rigas e d-ogni riga chentu ranos. Unâaugùriu de prosperidade pro chi totu potan à ere ite manigare.
De pretzisu non sâischit chie siat sâautore de custa otava, pro non faddire preferimus de lâiscrìere chentza dare perunu indicu.
Maria, de sos bonos cristianos
beneighe trabaglios e fadigas.
Su laore chi 'etan cun sas manos,
produat, d-ogni ranu, chentu ispigas,
e d-ognâuna chi giutat chentu rigas,
e d-onzi riga giutat chentu ranos.
E s'ispiga chi siat bella e chìbbera,
e d-ogni ranu peset una lìbbera.
Saludu e Augurios Giave! Sâ Istudiosu âe limba sarda Istèvene Ruiu
Anche nel 2016 l'Associazione Culturale Antonino Uras, ha voluto coinvolgermi nelle manifestazioni legate a Mes'Austu in Giave. Ho aderito volentieri alla richiesta del presidente Maria Antonietta Uras per proporre all'interno del progetto sul grano alcuni racconti presenti nel mio libro "Raccontando Giave" pubblicato nel marzo 2010. Le interviste agli anziani del paese vengono riproposte sotto forma di racconti e i brani scelti riguardano la descrizione dei mulini allora esistenti ,la macinatura del grano , la trasformazione in pane e contestualmente i lavori quotidiani che svolgevano le giovani donne. Un particolare ringraziamento all'Associazione con un augurio affinché possa proseguire sempre con grandi soddisfazioni nella strada intrapresa nellâanno â94 per la salvaguardia e la valorizzazione delle nostre tradizioni.
Sâ Iscrittrice Rita Spissu
SU MOLINALZU
Fu mio nonno Ambrogio Uras a dare vita al primo mulino meccanico a Giave. Si trovava in Via Bixio, al lato della casa di abitazione.
Così mio padre, Raffaele Foddai, che lavorava in Ferrovia ad Olbia, nel periodo della guerra riportò la famiglia in paese e dopo aver riscattato la sua parte dagli altri eredi, ebbe la piena proprietà del mulino. Inizialmente funzionava a gas povero, si diceva così.
Câera un forno dove si faceva il fuoco e un grande motore con un volano da due tonnellate. Raggiunta la giusta temperatura si faceva partire il volano che faceva girare la mola. Nonno conduceva il mulino a livello familiare, ci lavorava anche mio cugino Giovanni Foddai ma câerano anche degli altri operai che venivano da altri paesi come Antonio Frassu da Porto Torres che venne ad abitare a Giave con la sua famiglia.
Negli anni trenta, con lâarrivo dellâelettricità , si passò alla macina elettrica e venne abbandonato il gas povero. Quando modificammo il mulino di Via Bixio gli ambienti non erano più sufficienti ad accogliere le nuove apparecchiature elettriche per cui mio padre ,dopo aver effettuato uno scambio di casa, trasferì il mulino in Via Iosto. Le nuove apparecchiature erano varie, câera un pulitore per purgare il grano, una macchina lava grano, una semolatrice e due grandi macine. Una veniva utilizzata per macinare fave, granoturco e mangime in generale, lâaltra la usavano esclusivamente per macinare il grano. Il prezzo della macinatura veniva stabilito dal Podestà e noi non potevamo prendere iniziative a tal proposito e dovevamo registrare in appositi bollettini tutte le quantità e i nominativi dei vari clienti.
La quantità di grano che veniva portata a macinare variava a seconda delle necessità della famiglia, dai 15 Kg al quintale ma anche, e soprattutto, variava in base alla quantità di grano posseduta. Alcuni portavano il grano già purgato e lavato e allora lo si passava direttamente alla macina. Altri invece, specialmente nelle grosse quantità , portavano il grano ancora sporco e fu per questo motivo che acquistammo il pulitore e la lava grano. Quando qualcuno portava il grano ancora bagnato capitava che la mola si impastasse di farina che andava così a ostruire le rigature della pietra. Era necessario quindi ripulire la mola e piccare sa pedra. Questa operazione si faceva anche quando la mola , a causa del continuo sfregamento, si consumava allisciandosi.
Dopo la macinatura, attraverso due cassoni di setacci avveniva la separazione della farina per ottenere i vari tipi di macinato quali crusca, farina, semola ecc. Il nostro mulino era a conduzione familiare. Prevalentemente ci lavoravamo io e mia madre. Purtroppo dopo qualche anno dalla chiusura dellâ altro mulino presente in paese, quello di Pierino Tanchis , anche noi fummo costretti a chiudere. Molti giavesi emigrarono allâ estero o in continente e lâagricoltura andò in declino. Non câerano più tante persone che lavoravano in campagna e non si riusciva più a vivere dal lavoro del mulino. Anche noi dunque cercammo lavoro fuori paese.
TRIBAGLIOS DE PITZINNIA
Non mi è mai piaciuto lavorare in campagna. Preferivo fare i lavori di casa ma quando arrivava il mese di maggio era necessario che anche noi, figlie femmine, dessimo una mano.
Io e mia sorella Domenica andavamo a isalgare su trigu, cioè a strappare sâ elvenalzu, lâerba cattiva che cresce in mezzo al grano.
Le due piantine però erano molto simili per cui spesso mio padre ci sgridava perché insieme allâerba strappavamo anche il grano.
Facevamo dei veri pasticci così, dato che a isalgare su trigu non eravamo capaci, ci mandava a isalgare sa fae.
Qui non potevamo tirar fuori alcuna scusa perché le due piante erano totalmente diverse. Anche il lavoro delle fave però era faticoso.
Quando erano mature occorreva raccoglierle perché continuassero a seccare sotto il sole sistemate a filerina. Una volta pronte passava il carro e noi dovevamo caricarle sopra. Si portavano quindi a sâalzola e dopo sa triuladura si conservavano a casa dentro i sacchi. Successivamente bisognava seberarare sa fae per selezionare quelle migliori per la semina dellâanno successivo. Altre venivano vendute o utilizzate come cibo per il bestiame. I mesi estivi, sino a settembre, erano i più faticosi. Câera tanto lavoro in campagna e noi femmine eravamo le più svantaggiate perché mio padre e miei fratelli, ca fint omines, una volta rientrati a casa non facevano nientâaltro mentre a noi anche i lavori di casa.
A turno allora io, mia sorella e mia madre restavamo a casa per fare le faccende domestiche e preparare la cena.Solo il giorno che si doveva suighere restavamo tutti a casa. A volte è capitato che, poiché non câera pane in casa per gli uomini che andavano in campagna, i primi pani appena cotti me li caricassero in sa canistredda a cùccuru per consegnarglieli ancora caldi per il pranzo.
Noi ragazze andavamo a lavorare in campagna anche per conto di altri. Ad esempio, noi che non avevamo la vigna andavamo a vendemmiare presso altre persone e la ricompensa era semplicemente qualche grappolo dâuva sempre utile per le provviste di casa.
Non si aveva molta scelta dunque, non si poteva decidere se adempiere o meno a una mansione. Quando il dovere chiamava bisognava rispondere.
(Testimonianze raccolte -dae sos Giavesos Mario Foddai e Pasqualina Cossu- a cura di Rita Spissu)